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IL “CRISTO VELATO” NEI RACCONTI DI MATILDE SERAO

di MARIO BOCOLA

La scultura della Cappella Sansevero che ammalia i letterati

Matilde Serao, grande giornalista e scrittrice partenopea, narra in un breve scritto una sua visita alla cappella dei di Sangro con piglio ed emozione tutti diversi. Il Cristo mortopub­blicato nel 1881 nelle Leggende napoletane, ap­pare come un corpo estraneo al volume nel qua­le Serao raccoglie le piùnote storie della tradi­zione popolare napoletana. Il lettore che si aspetti il racconto delle gesta orribili e straordinarie del principe‑mago rimane deluso: nulla vi si dice di Raimondo di Sangro, nulla delle sinistre cre­denze che da più di un secolo accompagnano la sua memoria. Il tono favoloso, inoltre, che in tutta la raccolta evoca sirene, diavoli, munacielli, qui lascia il posto a una scrittura che, nonostan­te lo stile enfatico tipico della scrittrice esor­diente, pare più adatta alla pagina di un baedeker che a una di narrativa fantastica. Fonti scritte sull’opera del principe non mancano e Matilde Serao, sebbene giovanissima, certamente le co­nosce; se poi si considera la tradizione orale, più che mai viva nelle piazze e nei vicoli del centro antico, sembra ancora più inspiegabile che ella non riferisca di tutto quel ricco mate­riale così facilmente reperibile. Tanto più che da qualche anno la scrittrice, allo scopo di cono­scerla nelle sue pieghe più riposte, percorre si­stematicamente la città in una sorta di fatale preparazione alla discesa agli inferi che farà di li a poco, al tempo del colera.

«La cappella è glaciale», è la prima impres­sione che Serao annota in questo inconsueto taccuino museale, nel quale del principe di Sansevero non v’è traccia. Eppure i monumenti, i simboli massonici, le inquietanti macchine ana­tomiche, il sepolcro con la lunga epigrafe cele­brativa ricordano continuamente alla visitatrice il suo nome: ella, invece, vede soltanto freddi marmi, e grandi sculture allegoriche che una dopo l’altra le si parano davanti. In questo tem­pio ove sente aleggiare la morte ‑ «Tombe dap­pertutto» scrive con evidente disagio ‑ volon­tariamente ignora il mistero che non potrebbe narrare con il tono gioioso e rassicurante, con l’ingenuo incanto da libro delle fate che contrad­distinguono tutti i racconti delle Leggende na­poletane. Le imprese e la personalità del princi­pe paiono non essere decifrabili dalla narratrice realistica che vuole aderire al “vasto ideale di verità” e la sua leggenda ha toni troppi foschi che non possono in alcun modo da lei essere edulcorati. Amante della luce, e per ciò refrat­taria alle nebbie gotiche, Matilde Serao non sa indulgere a descrizioni truculente, non sa piegarsi alle orride suggestioni di un mondo dal quale la separa una distanza incolmabile.

L’unico racconto popolare che la scrittrice riprende è quello sulla sorte dell’autore del Cristo, Giuseppe Sanmartino, secondo la tradizio­ne accecato o addirittura ucciso dal principe di Sansevero allo scopo di impedirgli di scolpire un altro capolavoro come quello realizzato per la sua cappella. Ma il tema dell’amore, costante tormento del lettore e vero limite narrativo della raccolta, stravolge perfino la storia dello sculto­re, che vediamo morire tra poco verosimili spa­simi d’amore: «Singolare anima d’artista doveva esser quella dello scultore […] dove sorgevano uguali, immensi, due amori: quello per una donna, quello per l’arte. Infelicissimo, terribil­mente doloroso il primo. […] ha amato ed una convulsione ha contorta e spezzata la sua vita».

Soltanto la materialità dei luoghi, qui tra le sepolture dei di Sangro, la esalta e diventa pun­golo, Soltanto il Criston’esce a scuoterla dal gelido torpore, con il suo essere corpo vivido ed estremo, denso di emozioni e di saperi che pro­vocano la narrazione. «È grande quanto un uo­mo, un uomo vigoroso e forte nella pienezza dell’età. […] I capelli sono arruffati, […] le lab­bra schiuse» scrive l’impetuosa Serao aliena da propensioni metafisiche e capace di investire con il fuoco profano della passione anche il corpo divino straziato e deposto sotto il sudario tra­sparente.

Raimondo di Sangro è assente sino alla fine del racconto: Matilde Serao, sanguigna e istinti­va, sembra temere della leggenda la parte di ve­rità che essa sempre racchiude. Ha paura e di­stoglie lo sguardo. Forse, uscendo dalla penom­bra della cappella dei Sansevero, rassicurata dalla luce e riscaldata dal sole, guarda in direzione della dimora del principe. Di fronte al tempio dove è deposto il corpo del Cristo ricoperto dal velo sottilissimo, il palazzo si erge integro e maestoso: il crollo è lontano e mancano ancora otto anni. Quando si verificherà, la superstiziosa donna Matilde, siamo certi, non ne rimarrà stupita.

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